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PROTOSTORIA
E STORIA DI ASOLO
Asolo ha radici
lontane, che affondano in un passato remotissimo comprendente non soltanto
le vicende delle dorsali collinari, delle sellette e dei poggi, dove poi
ebbe vita e si sviluppò l'insediamento, ma una storia territoriale più
ampia e articolata, quasi la storia di tutta la decima regio augustea. Ma
è pur vero che non si può capire l'antico municipio e il suo ruolo se
non si intende appieno la sua «immersione» nella morfologia dei luoghi,
nella sequenza dei rilievi, nell'alternanza delle vallecole.
La
scelta insediativa di Asolo avviene infatti all'interno di una serie di
collinette di modesta altitudine (m 300/400 max. s.l.m.), disposte da
sudovest a nordest a delimitare la pianura settentrionale di Treviso e
nello stesso tempo a mediare «naturalmente» il passaggio verso le quote
più elevate del massiccio del Grappa e del sistema prealpino. E' una
mediazione reale, concreta, non solo metaforica: è su queste colline che
in autunno la nebbia della bassa si ferma, quasi che la demarcazione
orografica rappresenti pure una linea di passaggio climatico, con effetti
subito tangibili e rilevabili.
In realtà questa configurazione geografica è ancor meglio definita dai
due ampi incassi vallivi del Brenta a occidente e del Piave a oriente, che
di fatto vengono a inquadrare l'intero comprensorio pedemontano con due
vettori di comunicazione ancora una volta naturali, volti a collegare le
aree di pianura con quelle di montagna e viceversa.
Asolo
ha radici lontane, che affondano in un passato remotissimo comprendente
non soltanto le vicende delle dorsali collinari, delle sellette e dei
poggi, dove poi ebbe vita e si sviluppò l'insediamento, ma una storia
territoriale più ampia e articolata, quasi la storia di tutta la decima
regio augustea. Ma è pur vero che non si può capire l'antico municipio e
il suo ruolo se non si intende appieno la sua «immersione» nella
morfologia dei luoghi, nella sequenza dei rilievi, nell'alternanza delle
vallecole.
La scelta insediativa di Asolo avviene infatti all'interno di una serie di
collinette di modesta altitudine (m 300/400 max. s.l.m.), disposte da
sudovest a nordest a delimitare la pianura settentrionale di Treviso e
nello stesso tempo a mediare «naturalmente» il passaggio verso le quote
più elevate del massiccio del Grappa e del sistema prealpino. E' una
mediazione reale, concreta, non solo metaforica: è su queste colline che
in autunno la nebbia della bassa si ferma, quasi che la demarcazione
orografica rappresenti pure una linea di passaggio climatico, con effetti
subito tangibili e rilevabili.
In
realtà questa configurazione geografica è ancor meglio definita dai due
ampi incassi vallivi del Brenta a occidente e del Piave a oriente, che di
fatto vengono a inquadrare l'intero comprensorio pedemontano con due
vettori di comunicazione ancora una volta naturali, volti a collegare le
aree di pianura con quelle di montagna e viceversa.
Nel contesto geografico che abbiamo brevemente delineato non è quindi un
caso che un sito molto importante si trovi allo sbocco in piano del
Brenta, a S. Giorgio di Angarano, dove nella seconda metà degli anni
Venti si mise in luce una estesa necropoli risalente al bronzo
finaleprimissima età del ferro: attraverso l'altipiano di Asiago, senza
escludere la direttrice della Valsugana (pur in assenza finora di
documentazione materiale), si potevano infatti raggiungere facilmente le
risorse minerarie di ambito trentino e quindi con queste premesse si può
ben capire un fenomeno insediativo all'estremità meridionale del
cosiddetto Canale del Brenta. Ma le ricerche archeologiche, che da oltre
un decennio proprio in questo comprensorio pedemontano sono condotte da
chi scrive, hanno meglio chiarito anche la «funzionalità» di Angarano,
che non resta più un centro isolato come lo si poteva intendere appena
qualche tempo fa. Oggi al contrario esso si inserisce, per ciò che
riguarda l'aspetto cronologico, non solo su percorrenze «in verticale»,
ma anche e consistentemente in un «sistema» insediativo «in orizzontale»,
cioè allungato sulla cortina di colline che vanno da Romano d'Ezzelino, a
S. Martino di Castelciés a Cavaso del Tomba, al Monte Ricco di Asolo per
poi proseguire ulteriormente (per quanto riguarda le nostre indagini
dirette) al di là del Piave, a Stevenà di Caneva, non distante dalle
sorgenti del Livenza. Sono in sostanza quei siti in cui viene ribadita una
presenza antropica tra la fine dell'età del bronzo e la prima età del
ferro che sceglie luoghi abitativi relativamente «alti» ovvero
collinari, in ogni caso rilevati rispetto alla campagna circostante.
Questa
strategia locazionale, che privilegia «alture» e lo sbocco vallivo
occidentale (legato, come si è detto, forse a interessi economici più
settentrionali), sembra variare con il successivo periodo del ferro e con
la presenza dei Veneti, allorché il sito di S. Giorgio di Angarano
addirittura scompare. I Veneti infatti sembrano privilegiare soprattutto
il settore centroorientale della cortina collinare, comprendendo la futura
Asolo e segnatamente l'area orograficamente declinante verso il solco del
Piave. Basti ricordare in questo senso il comprensorio di Montebelluna,
posto appena a sud ovest delle ultime pendici del Montello e ricco di
testimonianze archeologiche. Ma tali presenze significano anche un'altra
cosa e assai importante: testimoniano infatti una correlazione molto
stretta con la cultura patavina e quindi una linea di irradiazione della
stessa attraverso direttrici nord orientali,. Montebelluna pare in tale
quadro un polo di grande rilievo, il più importante del pedemonte
trevigiano, da dove l'asse di diffusione poteva risalire la valle del
Piave, lungo la quale poi si trovano la necropoli di Mel e, più a
settentrione, gli abitati del comprensorio bellunese; ma non si deve
dimenticare, risalendo ancora il corso fluviale, il centro sacraletermale
di Lagole, con continuità di frequentazione anche in epoca romana. Con ciò
l'estremità orientale delle colline asolane e il Piave venivano ad
assumere, nei confronti della Padova veneta, la funzione di nodo e
cerniera nei collegamenti con i territori posti più a monte e di qui
addirittura con l'Europa centro orientale.
Per quanto riguarda la zona propriamente di Asolo nel paleolitico e nel
mesolitico, sembra che la scelta insediativa originaria abbia privilegiato
uno stanziamento basso, pedecollinare, con una particolare attrazione
verso la risorsa acqua: così si possono spiegare le tracce antropiche
presso Pagnano e Fornaci di Casella, lungo il torrente Muson. Le fasi
cronologiche successive sembrano indicare, già con il bronzo finale e con
il primo ferro (XVIII sec.a. C.) e con le tracce rinvenute sul Monte Ricco
e sul Col S. Martino (ma anche le altre realtà territoriali finitime
hanno confermato archeologicamente il dato), una scelta che decisamente è
di «altura» e quindi di naturale predisposizione alla difesa. Questo
tipo di arroccamento sembrerebbe lasciare il passo con l'avanzare del
ferro, se non addirittura in qualche caso a partire dalle sue prime
manifestazioni, a una scelta locazionale a quota più bassa, favorita
dalla particolare conformazione dei crinali e delle dorsali, nonché dalle
sellette che vallecole e le stesse dorsali creavano, dalla possibilità di
una esposizione a solatio e di un approvvigionamento idrico con ogni
probabilità non difficile. Bisogna dire tuttavia che un siffatto quadro
è soltanto una proiezione che poggia su pochissimi riferimenti materiali
accertati sistematicamente: per lo più infatti le poche notizie sono di
ritrovamenti sporadici, indefiniti topograficamente, che servono dunque
solo a delimitare caso mai un arco cronologico che comunque appare legato
all'ambiente veneto e soprattutto a Padova. Così, pur con questi limiti
di lettura, potrebbe essere suggestivo attribuire a questa fase iniziale
dell'insediamento il pozzo scavato nel conglomerato roccioso e sito in
piazza Brugnoli sarebbe un segno, tenuto conto dell'acquedotto romano che
molti secoli più tardi avrà capo poco distante, oltre che di una
continuità nel tempo di tali impianti funzionali, anche della presenza
effettiva di una risorsa essenziale per la vita di un abitato.
L'aspetto più importante da mettere in evidenza per il periodo veneto di
Asolo è che, per quanto sta emergendo in ricerche occasionali e
sistematiche nel centro storico, già in epoca molto antica si dovette
mettere mano a una ristrutturazione progressiva del terreno, che teneva
certo conto della sua morfologia naturale, ma pure la modificava laddove
più problematica e difficile sarebbe stata la possibilità di
insediamento. A questi interventi di «regolarizzazione» delle pendenze
si possono attribuire le ben definite tracce di terrapieni e di
terrazzamenti che le ricerche di questi ultimi anni hanno messo in luce in
alcune aree, quali sellette o poggi, che erano già «predisposte» per
caratteristiche proprie a favorire una frequentazione stabile, ma che con
l'allargamento, la colmatura e il livellamento artificiale della loro
superficie vedevano di molto ampliato il proprio potenziale di ricettività.
In sostanza ad Asolo, sin da una fase che si potrebbe definire forse
protourbana, si assisterebbe a quel fenomeno che sarà la costante della
vita architettonica e urbanistica del centro collinare e che io definisco
di dialettica tra fattore naturale territoriale e fattore artificiale
indotto dall'uomo per crearsi condizioni di vivibilità sempre più
adeguate alle sue esigenze.
Al di là di questi problemi di impianto, l'Asolo veneta sembra inserirsi
bene, pur senza essere in primissimo piano, in quel flusso di rapporti che
doveva aver capo a Padova e irradiarsi verso le aree nord orientali e in
particolare verso la vallata del Piave. Naturalmente il senso dei rapporti
dei Patavini con il loro «entroterra» settentrionale aveva precise
motivazioni nelle direttrici vallive che collegavano la pianura al cuore
delle alte montagne e di lì alle altre valli transalpine, ma trovava
ancor più valide ragioni, per così dire a raggio più limitato, proprio
nel comprensorio pedemontano tra Brenta e Piave, dove l'abbondanza di
pascoli doveva essere correlata a una fiorente attività di allevamento e
pastorizia da cui derivava poi la materia prima lavorata e confezionata
nel capoluogo veneto di pianura.
Ma le colline asolane assumevano probabilmente una valenza tutta speciale
anche per un'altra questione. Vale la pena mettere qui in giusta evidenza
una testimonianza epigrafica che è stata «riscoperta», dopo un
dibattito avvenuto in tempi più lontani, proprio nell'ambito di studi
recenti. Si tratta della ben nota stele (o meglio frammento epigrafico)
ritrovata a Castelciés di Cavaso del Tomba, appena più a nord di Asolo,
stele che reca un'iscrizione cosiddetta retoetrusca, su una faccia, e una
in alfabeto latino arcaico, sull'altra, entrambe impenetrabili finora a
ogni tentativo di interpretazione. In assenza di letture o scoperte più
esaurienti, credo che a questo proposito sia da riconsiderare attentamente
quanto sia il Pavan, sia il Bosio affermano circa la presenza sulla lastra
arenacea di due lingue diverse, utilizzate forse per un identico testo.
Tale fatto poteva suggerire, secondo i due autori, l'idea di un segnacolo
bilingue posto lungo una sorta di linea di demarcazione e insieme di
passaggio tra due aree e due culture di differente afferenza etnica:
quella retica a settentrione e quella veneta, in fase di avanzante e
progressiva romanizzazione, a meridione. Il quadro di grande suggestione
che ne vien fuori sembrerebbe in realtà confermato dagli sviluppi
successivi che coinvolgono la nostra zona, oltre che da recentissime,
importanti scoperte di ossa di animali a destinazione votiva con
iscrizioni venetiche (dal poggio del teatro).
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