Questa manifattura fu introdotta nel corso del '600, quando si
sostituì alla "dimessa fabbrica dei panni". Vi sono
diverse ipotesi concorrenti atte a stabilire l'origine di
questa vera e propria cultura lavorativa. Attenendoci alla
tradizione crediamo più veritiera quella che vuole
quest'abile tecnica importata intorno al 1640 da Nicolò Dal
Sasso (1606?-1680?) chiamato anche Nicoletto Dallo Stabile, di
professione legnaiolo e originario di Lusiana nel vicentino.
E' avvincente la leggenda (o cronaca vera?) che viene
raccontata a proposito di questo personaggio così ricco di
fascino. Si narra che Nicoletto amasse, ricambiato nel suo
affetto, Beppina, ma che il padre di lei e il rivale si
opponessero caparbiamente alla loro unione. Perciò i due
innamorati tentarono la fuga. Tentarono, poiché tutti i loro
piani dovettero sfumare dopo un terribile e sanguinoso agguato
combinato dai due oppositori presso la Val Brutta di Santa
Caterina di Lusiana. Beppina venne così ricondotta a casa e
Nicoletto fu costretto a darsi alla "macchia".
Imbarcatosi per mare, fu rapito dai pirati e successivamente
liberato in un'isola del Levante dove incontrò un vecchio e
pio eremita che gli insegnò l'arte di fare la treccia di
paglia e con questa i cappelli.
Dopo circa un anno Nicoletto tornò in patria e "trovato
per la morte del suo rivale, cangiate in meglio le cose,
coll'assenso del padre, sposa lieto e contento la mantenutasi
fedele sua Beppina" (G. Nalli). Fu così che iniziò,
finalmente accasatosi, ad introdurre nel suo paese
quest'importante e redditizia attività. E poiché da cosa
nasce cosa, in breve tempo la novità si diffuse e soprattutto
si capì come poterne trarre dei profitti.
Il successo fu repentino e la tecnica venne col tempo affinata
e migliorata. I cappelli di paglia divennero uno dei prodotti
principali di esportazione per questa zona dell'Alto Vicentino
e spesso ne venivano spediti interi pacchi addirittura in
America, in Asia, oppure in Africa. L'esportazione in paesi
come la Francia, l'Inghilterra o la Germania fu per un certo
periodo normale e frequente.
Nacquero dei veri e propri maestri cappellai, degli esperti
nel settore che venivano chiamati con frequenza in varie parti
d'Italia ad insegnare questa o quella tecnica.
Ai signori Giuseppe Meneghini di Vallonara e Francesco
Cimberle di Bassano andò rispettivamente il merito di aver
inventato il modo di tingere in nero e di dare lucentezza ai
cappelli. Con questi accorgimenti si diede un'ulteriore spinta
ad un commercio di per sé già florido. Agostino Dal Pozzo,
vissuto nel '700, scriveva allora che i cappelli prodotti in
questa zona "… non solo eguagliano, ma superano in
bellezza quelli di Firenze e di ogn'altra fabbrica".
I mercanti più conosciuti di quest'epoca furono i Cantele di
Lusiana e lo stesso Meneghini di Vallonara. Intorno al 1830 si
cominciò ad usare il ferro da stiro e dopo il 1850 si
introdusse il processo di imbiancatura e della tintura
chimica. Uomini, donne e bambini passavano gran parte delle
loro giornate, soprattutto d'inverno, ad intrecciare paglie e,
fino a poco tempo fa, non era difficile entrare in qualche
stalla e trovarvi qualcuno ancora intento in questa attività.
La fine dell'800 rappresentò un periodo di crisi che
purtroppo era destinata a crescere e ad espandersi col tempo.
L'emigrazione era oramai alle porte: nulla del resto si poteva
fare contro la moderna industria che avanzava. Rimasero i soli
artigiani che poco o nulla potevano fare contro lo strapotere
della macchina. Il prodotto utilizzato per fare la treccia,
chiamato "fastugo", derivava da una varietà del
grano da pane (triticum vulgare), coltivato intensamente in
terreni aridi e pietrosi come quelli dell'Altopiano. La semina
avveniva a marzo (di qui il nome di formento marzuolo) e la
raccolta a luglio, quando il grano cominciava a biancheggiare.
Seguivano tutte le lavorazioni: il taglio della spiga,
l'esposizione al sole, il taglio del nodo (cuco, da cui
l'espressione scucare i fastughi), la divisione dei fastughi a
seconda della grossezza, ecc.
Prima di cominciare il lavoro, i fastughi venivano messi in
acqua perché non si rompessero lavorandoli, e solo a questo
punto si cominciava. Tanti erano i modi di fare la dréssa: a
sette fili, a spina semplice, a doppia spina, col dente, a
parata torta, a parata ritorta, con incassatura, ecc. Anche i
cappelli avevano nomi diversi: berne a sei giri, ad otto, ad
undici, sopramessi, a mezza volta, strapiccoli, capotte.
Chissà quanti di questi cappelli vicentini avranno superato
le Alpi o attraversato l'Oceano sulle teste di uomini e donne
in cerca di miglior fortuna?
Marco Crestani